IT’S GONNA REICH

Il ritorno dei «minimalisti»

L'«opera omnia», Bali e le delizie d'Oriente, un prestigioso concerto e un disco nuovo.

 

 

1. Steve Reich come rischio: rischio di uscir di senno, di vedere sconvolti i propri ritmi bio-mentali. Si sa di un esperimento condotto al Mills College, in California, nel 1973, su cento soggetti ambosessi, in ottima salute e in età compresa tra i 5 e i 65 anni. Costoro, sottoposti per 24 ore continuate a una «irradiazione» di Drumming (sala di media gran­dezza, volume abbastanza alto), hanno reagito come segue. Dopo la decima ora, 60 soggetti percuotevano ritmicamente qualsiasi cosa, dal proprio corpo alle pareti della stanza; 30 cantavano in coro, seguendo il brano musicale, mentre i rimanenti 10 erano ancora assorti nell'ascolto. Alla quindicesima ora, i «percussionisti» erano diventati 70, i cantanti 15, mentre 11 avevano iniziato a camminare continuamente in senso circolare e concentrico e 1 si era addormentato (quello di 65 anni); i rimanenti 3 gridavano insistentemente di voler uscire dalla stanza (furono accontentati alla diciassettesima ora, quando erano al limite del delirio). Alla fine dell'esperimento: 65 soggetti camminavano in senso circolare o ellittico (ci vollero alcune ore per far loro ripristinare l'andatura rettilinea), 10 continuavano a cantare e a percuotersi contemporaneamente (età fra i 5 e i 15 anni), 10 si erano sdraiati per terra con gli occhi sbarrati, 1 dormiva ancora e l'ultimo uscì dalla stanza gridando: «L ' entropia dell'Universo è infinita!».

Non si hanno notizie sulle conclusioni che i promotori dell'esperimento hanno tratto. Quanto ai protagonisti della prova, si è saputo che 10 di loro sono diventati percussionisti, 5 hanno dato fuoco alla personale discoteca, 3 si sono laureati in Fisica con una tesi sul moto relativo, 3 sono diventati scrittori e si dichiarano seguaci di Borges, di altri 7 si sono perse le tracce ma si presume che si siano votati alla composizione. In ogni caso, Steve Reich ha trovato in seguito molte difficoltà per incidere su disco le proprie opere.


2. Steve Reich è nato a New York, il 3 otto­bre del 1936. A quattordici anni era batterista e adorava Kenny Clarke. Dopo essersi laureato in filosofia alla Cornell University (1957) ha studiato composizione alla Juilliard School of Music, dal 1958 al 1961. Nel 1963 ha ottenuto il diploma in musica al Mills College, in California, dove aveva studiato con Darius Milhaud e Luciano Berio.

La sua discografia comprende: Come Out (inclusa in New Sounds In Electronic Music, CBS/Odyssey), It's Gonna Rain/Violin Phase (in Steve Reich: Live/Electric Music, Columbia Masterworks), Four Organs/Phase Patterns (Shandar), Four Organs (in Three Dances and Four Organs, Angel), Drumming/Music For Mallet instruments, voices and organ/Six Pianos (Deutsche Grammophone, album triplo), Music For Eighteen Musicians (ECM). Di imminente pubblicazione: Music For Large Ensemble (ECM).

L'intervista che segue è un puzzle di cose diverse: un colloquio con i redattori della rivista Impetus, fine del 1977, scritti vari di varie epoche comparsi sull'aureo volumetto dato alle stampe anni fa dall'artista, Writings About Music.


3. D. Quali sono stati i tuoi primi approcci con la musica, a livello compositivo?

R. Durante i primi anni '60 ero interessato alla poesia di William C. Williams, di Robert Creeley, di Charles Olsen, e cercavo, di tanto in tanto, di musicare i loro poemi, sempre senza successo. Questo fallimento era dovuto principalmente al fatto che quel tipo di poe­sia era costruito con i ritmi del linguaggio americano; cosi, musicare quei poemi avreb­be significato distruggere una certa qualità del loro linguaggio. Risolsi il problema utiliz­zando le incisioni delle poesie come materia­le per nastri registrati.

In seguito, nel 1964, incisi un nastro in Union Square, a San Francisco, dove un predicato­re nero, tale Brother Walter, parlava del Di­luvio Universale. Fui estremamente impressionato dalla qualità melodica del suo linguaggio, che sembrava trasformarsi in canto. L'anno seguente elaborai dei loops (1) con la sua voce, il che evidenziò la qualità musicale del suo linguaggio. Questo non vuol dire che le parole realmente pronunciate, «It's Gon­na Rain», nel loop perdevano il loro senso; semplicemente, l'incessante ripetizione dava più peso, più forza sia al significato che alla melodia delle parole. L'idea di procedere a livello di «ripetizione» mi era venuta fin dal 1963, ai tempi dei primi esperimenti coi loops; direi però che solo l'anno dopo, aiu­tando Terry Riley a «montare» la prima esecuzione di In C, la cosa aveva preso corpo precisamente. Il problema successivo fu quello di elaborare qualche cosa di nuovo, a livello di tecnica musicale, con materiali del genere. La mia prima idea fu di far suonare un loop, diciamo, «contro» se stesso, in uno specifico rapporto canonico, finché qualcuno del pezzi precedenti si fosse combinato con due o più strumenti identici che suonavano le stesse note, l'uno contro l'altro.

Durante la ricerca del metodo di allineamento di due loops identici, per metterli in qualche particolare relazione fra di loro, scoprii che la musica più interessante veniva fuori semplicemente allineando i nastri all'uniso­no e quindi lasciandoli andare lentamente fuori fase l'uno rispetto all'altro. Quando ascoltai questo processo di graduale cambia­mento di fase, cominciai ad accorgermi che ciò era una forma straordinaria di struttura musicale. Era un continuo, ininterrotto, svolgimento musicale senza giunzioni.

La prima parte di It's gonna rain, completata nel gennaio del ’65, è l’incarnazione letterale di questo processo. Due loops sono allineati all’unisono e quindi vanno gradualmente fuori fase l’un l’altro per poi ritornare all’u­nisono. L'esperienza di questo processo musicale è assolutamente impersonale: tutto procede a suo modo. Un altro aspetto inte­ressante è la sua precisione: niente che può cambiare niente. Una volta che il processo è niziato, inesorabilmente va avanti da solo.


D. Come hai iniziato ad intervenire personal­mente, come musicista oltre che compositore, nel processo ripetitivo?

R. Nel '66 registrai un breve «modello » melodico ripetuto, e quindi cercai io stesso di suonare contro il loop, esattamente come se io fossi il secondo registratore. Scoprii, con sorpresa, che mentre mancavo della perfezione della macchina, potevo dame una buo­na approssimazione e nello stesso tempo provare una grande soddisfazione suonando in questo modo (sapevo di dover partire al­l'unisono, gradualmente andare avanti di una battuta, fermarmi, quindi andare avanti di un'altra, e così via fino a ritornare all'uni­sono), libero da ogni notazione scritta e com­pletamente assorbito dall'ascolto mentre suonavo. In seguito cominciai a scrivere dei pezzi, come Piano phase o Violin phase, nei quali l'elemento meccanico era assente e i musicisti, che suonavano lo stesso strumento e la stessa frase, dovevano ripetere il proces­so di sfasamento e di ritorno all'unisono che avevo inventato con i registratori. La que­stione, in effetti, che poteva sorgere era: perché imitare le macchine suonando della musica dal vivo? Io credo che ci siano delle attivista umane che possano essere chiamate «imitazioni delle macchine», ma che sono, in realtà, delle operazioni di controllo molto accurato del tuo corpo e della tua mente, cosi come negli esercizi di respirazione Yoga. Questo tipo di attività diventa molto utile fisicamente e psicologicamente, poiché affi­na il potere di concentrazione della mente.


D. Puoi parlarci di qualche altra tua composizione, che ritieni particolarmente interessante ma che non è mai stata incisa su disco?

R. C'è un pezzo, intitolato Pendulum music, che ho composto nel 1968; è un brano per mi­crofoni, amplificatori, «speakers » e «performers». La «partitura » è cosi concepita: tre, quattro o più microfoni sono sospesi al soffitto con dei cavi che li mantengono tutti alla stessa distanza dal pavimento e che permet­tono loro di essere liberi di dondolare con movimento pendolare. Ogni cavo è inserito in un amplificatore collegato ad un altoparlante. Ogni microfono e sospeso a pochi cen­timetri dal proprio altoparlante. Prima del­l'esecuzione, il volume di ogni amplificatore viene aumentato fino al punto in cui intervie­ne il fenomeno di risonanza quando il micro­fono dondola vicino al suo altoparlante, ma tale fenomeno scompare quando il microfo­no, muovendosi, si allontana. Il livello del volume degli amplificatori, quindi, viene se­gnato come punto di riferimento per il futu­ro. L'esecuzione inizia con i performers che spingono i microfoni come delle altalene e poi li trattengono, mentre altri performers aumentano gli amplificatori fino ai livelli precedentemente segnati. Quindi i microfoni vengono tutti liberati all'unisono. Così si ascolteranno delle serie di risonanze pulsanti che potranno essere all’unisono o meno, a seconda del graduale cambiamento di fase relativo ai vari microfoni-pendolo. I perforers, a questo punto, si siedono con il pubblico a guardare e ascoltare quel che accade. Il brano finisce subito dopo che i microfoni si sono fermati in posizione di continua risonanza, cioè quando i « performers» vanno a staccare la corrente degli amplificatori.

Un altro pezzo interessante, ma che e rimasto solo a livello concettuale perché impossibile da realizzare, era Slow motion sound, del '67. L'idea-base consisteva nel fare un loop di un brano parlato e quindi rallentarlo enormemente senza fargli perdere le sue quanta timbriche. In effetti avrebbe dovuto essere la colonna sonora di un film loop gra­dualmente rallentato durante la proiezione. Comunque Slow motion sound non è mai sta­to realizzato ma è servito come idea-base per altre due mie composizioni più note: Four Organs, del '70, (dove era il suono dell'orga­no a essere progressivamente rallentato) e Music for mallet instruments, voices and or­gan, del '73. In effetti, in termini musicali, rallentare il movimento significa aumentare la lunghezza della durata delle note prece­dentemente suonate in maniera più breve.


D. Drumming, invece, è la tua composizione più imponente, pin elaborata; è un po' it cuore del tuo mondo musicale. Puoi spiegar­ci come è nata?

R. Il mio «background» di batterista mi ha lasciato un grande amore per le percussioni, che inizialmente è venuto fuori in Phase pat­terns

, un pezzo del '70 dove i quattro tastieri­sti dovevano usare i loro organi letteralmen­te come delle percussioni. Ma un altro fatto­re che mi ha portato a Drumming fu il viag­gio da me compiuto in Ghana nel 1970. L'i­dea di andare in Africa l'avevo in mente fin dal 1962, quando studiai un libro intitolato Studies in african music, del Rev. A.M. Jones. Nel 1970 incontrai Alfred Ladzepko, che era un maestro percussionista del Ghana, il quale insegnava a New York alla Columbia University e attraverso lui andai nel Ghana a studiare da Gideon Alorworye, che ora inse­gna in America. Durante la mia permanenza in Africa smisi ogni attività come composito­re e mi dedicai assiduamente allo studio delle percussioni. Così arrivai a scoprire che gli strumenti acustici potevano essere usati per produrre musica genuinamente più ricca nel suono di quella creata con gli strumenti elet­tronici, e ciò confermava la mia naturale in­clinazione verso le percussioni. Al mio ritor­no, fra l'autunno del '70 e l'autunno del '71, lavorai attorno a Drumming: è la più lunga composizione che ho mai creato, dura circa un'ora e mezza ed è divisa in quattro sezioni da eseguirsi senza pausa; vi sono inseriti differenti tipi di strumenti a percussione (ho scelto volutamente quelli più facilmente rin­tracciabili nei paesi occidentali), ma anche voci umane e flauti. Drumming, nel contesto della mia musica, rappresenta sia l'espansione finale e il raffinamento del processo «per fasi», sia il primo impiego di quattro nuove tecniche: il processo di sostituzione graduale delle battute con le pause (o delle pause con le battute) attraverso la ripetizione costante di un ciclo ritmico; il graduale cambiamento di timbro mentre il ritmo e il tono rimango­no costanti; la combinazione simultanea di strumenti dal timbro differente; l’uso della voce umana come parte dell’insieme musicale che imita esattamente il suono degli strumenti.

Questa idea di usare la voce umana come imitazione del suono degli strumenti, che in Drumming mi aveva inizialmente creati grossi problemi nella ricerca delle similitudini timbriche, è stata estesa poi in Music for mallet instruments, voices and organ (1973) come una fusione costante vocale/strumentale, la quale e servita da base timbrica all'intero pezzo.


D. L'ultima composizione da te incisa su disco è Music for 18 musicians: che importanza ha all'interno della tua produzione?

R. Music for 18 musicians, che è stata composta fra il '74 e il '76, dal punto di vista della sua energia ritmica e della sua pulsazione con andamento regolare si rifà a molti dei miei vecchi lavori, ma la sua strumentazione, così come l'armonia e la struttura, sono nuove. In questa composizione ho usato tra gli altri, anche strumenti come i clarinetti, il violino e il violoncello; non ci sono apparecchiature elettroniche. C'è più movimento armonico nei primi cinque minuti di Music for 18 musicians che in qualsiasi altro lavoro abbia mai fatto; mentre, dal punto di vista ritmico, vi sono due tipi di tempi fondamentalmente differenti che concorrono simultaneamente. Il primo è quello della pulsazione ritmica regolare nei pianoforti e negli strumenti a percussione, che continua per tutto il pezzo. Il secondo è il ritmo del respiro umano nelle voci e negli strumenti a fiato: le intere sezioni di apertura e di chiusura, più una parte delle sezioni di mezzo, contengono le pulsazioni delle voci e dei fiati. I musicisti prendono pieno respiro e cantano o suonano cadenze di particolari note note fino a che il loro respiro li sostiene confortevolmente. Il respiro è ­[a misura della durata del loro pulsare. Questa combinazione di un respiro dopo un altro che gradualmente si infrangono come onde contro la ritmica costante dei pianofor­ti e degli strumenti a percussione, è qualcosa che non avevo mai ascoltato prima e anche qualcosa che mi piacerebbe approfondire più avvanti.


D. L’elemento del respiro umano come fat­tore condizionante nella struttura dell'opera, non indica anche la presenza del «fattore umano» in una musica che alcuni hanno eti­chettato come «meccanica»? R. In effetti, a molti dei miei collaboratori piace suonare Drumming più che ogni altro pezzo, perché vi ritrovano maggiore libertà e rilassatezza. Ma Music for 18 musicians possiede ­maggiore libertà nella composizione: molto più che nella maniera in cui il brano è messo insieme. Esso e molto più ricco all'ascolto e inoltre contiene una grande armonia nei confronti dei pezzi «per fasi». Ma ci sono anche possibilità molto minori per i musici­sti di prendere decisioni, al di là del numero delle ripetizioni, sui tempi e sulle sfumature. Questa sua «carenza di flessibilità», comunque, ­si avverte solamente nella costruzione del brano: in generale, Music for 18 musicians è una lussureggiante, ricca esperienza d’ascolto.


D. A parte la musica africana, ci sono state delle conoscenze musicali extraeuropee o non americane che hanno condizionato la tua crescita artistica?

R. Direi senz'altro la musica balinese. Ho studiato a Bali sia nel 1973 che l'anno seguente, grazie ad uno straordinario personaggio che si chiama Robert Brown, un tipo che ne­gli Stati Uniti dirige un'organizzazione per lo sviluppo delle arti orientali. Sono stato dav­vero fortunato a poter studiare approfonditamente il Balinese Gamelan Semar Peguli­gan ; trovo che sia una disciplina estrema­mente complicata e interessante. Attual­mente ml sto interessando agli antichi canti ebraici. Sono affascinato soprattutto da certe caratteristiche della notazione, dalla cadenza degli accenti e altro ancora. In ogni caso, penso sia interessante conoscere sempre in che modo è costruita una certa musica piut­tosto che restare vincolati alla forma esteriore dei suoni «esotici ». Dopo avere imparato qualcosa di musica africana, e balinese, ed ebraica, questa è la mia opinione, che «lasciarsi incantare» da certe tradizioni musicali, quali che siano, è dannoso e frustrante, se non interviene un certo studio e una raziona­lizzazione del materiale; pensa ai musicisti pop degli anni '60 e al loro equivoco rapporto con la musica indiana, per capire quello che intendo dire.


4. Reich mette il vestito nuovo. Alla Carnegie Hall, fine di febbraio, 2800 persone atten­tissime assistono alla prima di Music For Large Ensemble, di Octet, di Variations For Winds, Strings and Keyboards, i primi lavori che l'artista divulga. dalla partitura celebre di Eighteen Musicians. Large Ensemble e Octet saranno «tradotti» quanto prima su di­sco (ECM), insieme a una nuova opera per archi, qualcosa come «il ritorno di It's Gon­na Rain»; le Variazioni, invece, ben più am­biziose, subiranno ulteriore rodaggio, per essere eseguite infine, nella versione completa, dalla San Francisco Symphony Orchestra. La «cifra stilistica» di Reich seguita naturalmente ad essere la solita, con il moto ritmico «circolare», gli, oculati scambi e contrasti strumentali, la delicata tramatura timbrica che una volta per tutte è stata illustrata in Drumming. Ciò non significa che l'artista si rifugi nella «formula», rinunciando in qual­che modo a provare; l'interesse per le più ampie strutture orchestrali (Music For Lar­ge Ensemble prevede 30 musicisti, Varia­tions for Winds, Strings and Keyboards è concepita per grande orchestra), una certa curiosità che guida la mano nella scelta dei «colori» del suono (organo elettrico, tuba, flauti, trombe, oboe, accanto alle marimbas; archi, pianoforte delle pagine più celebri) di­cono la vitalità del musicista in questo parti­colare frangente. Quel che più colpisce, tut­tavia, che singolarmente convince, è il clima dei vari brani, Octet in special modo; una fresca aria di gioco e divertimento, una «luce» straordinariamente brillante che investe i ritmi e la tessitura armonica. Per tacere, poi, la comparsa di certe eco melodiche che, a tender bene l'orecchio, si possono cogliere anche in fondo ai lavori più nuovi di Glass e allo Shri Camel ultimo di Riley; «minimal goes in melody», azzarda qualcuno, e chissà che non sia una buona mossa per rilanciare in qualche modo una scuola, quella «ripetiti­va», appunto, che per molti versi pare avere esaurito i propri argomenti.


Enzo Capua e Eugeme Chernikowski, Musica80, n. 5, giugno 1980


(1) Per loop s'intende, in questo caso, un brano di nastro magnetico, chiuso ad anello, che ripete all'infinito la medesima frase musicale che vi è registrata. Il termine è usato anche nel campo dei cervelli elettronici, per in­dicare la ripetizione continua di uno stesso programma del calcolatore.