Duilio Del Prete canta Brel

Gianni Mura (dal libretto che accompagna il CD)

"Per Jacques Brel,
perché lui non c'è più
ma io sì."

 

 

Adesso che non c'è più nemmeno Duilio Del Prete, questa sua dedica, che apre il libro delle traduzioni da Brel (Arcana, 1994), ha la stessa carica d'effetto, ma ci consegna un doppio rimpianto (Brel è morto nel '78, Del Prete nel '98) e un nuovo impegno: quello di riascoltare queste canzoni di Brel come fossero anche (lo sono in verità) canzoni di Del Prete. Tradurre non è mai facile. Non è facile tradurre un romanzo, ancor meno una poesia, ancor meno una canzone perché oltre alla metrica vanno rispettati i tempi musicali e ovviamente lo spirito, l'atmosfera, insomma tutto quello che di una canzone fa qualcosa che dura nel tempo, non una sola estate. Come scriveva Duilio, “vanno il più possibile colti e salvaguardati, magari interscambiandoli nella lingua d'arrivo, tutti i ritmi di scrittura, gli aspetti fonici, gli scioglilingua presenti in quella di partenza. Se c'è una architettura di dentali va rispettata”. Per questo non ha importanza se la grossa Adrienne de Montalant diventa la tampa d'Eva di Viggiù e l'Hotel des Trois Faisans il Club Corona d'Oro. Importa che la tenerezza, la rabbia, la passione di Brel si rispecchino nella tenerezza, nella rabbia, nella passione di Del Prete.

Tradurre tutto, di un autore, è una scelta che va oltre l'ammirazione e la scelta di comodo (traduco una canzone perché è bella, perché mi serve). Del Prete di Brel ha tradotto tutto, anche gli inediti, anche le canzoni del primo periodo, quelle un po' da oratorio che avevano portato Brassens a un commento agro (“l'abbé Brel”). La copertina del 33 giri di Del Prete (“La bassa landa/Le plat pays”, 1970): primo piano di Duilio che fuma una sigaretta senza filtro, probabilmente francese. La foto di copertina del libro di traduzioni: primo piano di Jacques che fuma una sigaretta senza filtro, sicuramente francese. Penso che la traduzione, quando non è fatta per lavoro, per obbligo, sia una ricerca di sé nell'altro, che parta da un'affinità di sentimenti, da un modo di vivere la vita. Brel è un grande chansonnier che chiude con la canzone, passa al cinema, al musical, all'attesa di una morte da vivere in piedi. Del Prete è un grande attore che ha sempre amato comporre e cantare (dal Cantacronache di gioventù ad “Amori miei”, da Fausto Amodei a Garinei e Giovannini). La stessa versatilità come attore, dal film sui fratelli Cervi all'“Orlando furioso” con Ronconi, ad “Amici miei” di Monicelli, e per quella parte molti ancora credono che Duilio fosse toscano, mentre era nato a Cuneo. Fino a che punto si possono saldare un cantante che recita e un attore che canta? La mimica, l'estrema partecipazione fisica alle sue canzoni sul palcoscenico sono un pilastro del successo di Brel. Sapendo, da attore, che interpretare vuol dire essere, Del Prete non gli è inferiore nel darsi, nell'essere di volta in volta sognatore e cinico, cialtrone e oppresso, innamorato e respinto, insinuante e indignato. Non a caso le canzoni più amate di Brel restano “Ne me quitte pas” e “La chanson des vieux amants”, tra le poche in cui non affiori la sua vena di misoginia, penso non condivisa da Del Prete. Ma l'antimilitarismo non di maniera, gli sberleffi alla società dei benpensanti, il senso virile dell'amicizia (per me “Attilio” vale “Jef”), la tenerezza, l'ironia, tutto questo autore tradotto e autore traduttore ce l'hanno in comune, ognuno per suo conto.

Non pochi della mia generazione hanno sognato d'invecchiare senza mai diventare adulti e forse qualcuno c'è riuscito. “Entreremo cantando nei muri della vita”, questo è Jacques. “Ma provate ad uscire per imparare a vivere da quelli che si danno per amore, da quelli che si bevono anche il cuore”, questo è Duilio. In questo tempo che smemora e svapora le loro voci sono più di un ricordo e più di un'emozione. C'è da mangiare, ancora, e da bere. E da ringraziare, alla fine, questi due artisti della vita.


[Gianni Mura]